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Gucci, il flop e la rinascita: la sfida di Kering

Gucci, il flop e la rinascita: la sfida di Kering
Yesterday 12:00
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Giorno dopo giorno, il flop di Gucci assume dimensioni sempre più imponenti ma, per fortuna, c’è Lucio Corsi. I numeri, quelli non mentono. Le cifre hanno fatto sobbalzare gli azionisti di Kering, l’holding francese del lusso che detiene la proprietà del marchio. Più che un flop, una Caporetto. Gucci, nel 2024, ha perso il 23% del suo stesso fatturato. Le vendite retail (che rappresentano il 91% di tutti gli affari della maison fiorentina) sono crollate del 21% su base comparabile. I ricavi dai grossisti, addirittura, si sono assottigliati del 28%. In tutto, i ricavi sono diminuiti del 24 per cento e gli unici mercati che hanno consegnato, nel 2024, qualche segnale positivo sono stati quelli del Nord-America e dell’Asia orientale con vista sul Pacifico. Intendiamoci, le cifre restano imponenti: i ricavi totali di Gucci nel 2024 sono stati pari a 7,7 miliardi di euro per un utile operativo ricorrente di 1,6 miliardi. Però c’è da sottolineare che, nel 2023, i ricavi erano stati di poco inferiori ai 10 miliardi (9,9 miliardi) e già un anno fa si parlava della necessità di rivitalizzare il brand che aveva perso il 6% dei suoi ricavi rispetto al 2022.

La prima mossa che Gucci, anzi Kering, ha fatto per tentare di risollevare la barca è stata allontanare il capostilista, anzi il direttore creativo, Sabato De Sarno. Un po’ come accade nel calcio quando a pagare è sempre l’allenatore. De Sarno, 42 anni, napoletano, era stato nominato a gennaio ’23 con l’arduo compito di sostituire Alessandro Michele che, nel frattempo, aveva deciso di assumere la guida creativa di Valentino. La notizia è stata resa ufficiale il 6 febbraio. Con tanto di comunicato stampa che augura le migliori fortune ringraziando per l’ottimo lavoro svolto. Non è che sia stata una gran sorpresa, in fondo la moda è pur sempre un affare. E quando i numeri non premiano, c’è bisogno di cambiare. E la svolta è stata repentina, considerando che il 25 febbraio, in apertura alla Fashion Week di Milano, è prevista la sfilata, già decisiva, dedicata alle collezioni donna autunno- inverno. Sarà gestita, per ora, dall’ufficio creativo. Poi ci sarà tempo per presentare il nuovo direttore.

Prima di farlo, però, bisognerebbe comprendere quali siano state le ragioni alla base del flop Gucci. Un marchio che è italianissimo ma che è vissuto come più americano di tanti altri. Vi dicono niente Tom Ford e Lady Gaga? Forse (anche) per questo le vendite in Cina, un’autentica miniera d’oro per Gucci, si sono rallentate. Un po’ per via delle fibrillazioni commerciali tra Europa, America e Pechino. Un altro po’ perché, proprio a causa di queste tensioni, in Cina s’è risvegliato un certo spirito nazionalista. Che, però, non ha pesato sulle (mancate) vendite tanto quanto la crisi economica dovuta all’esplosione della bolla immobiliare che ha seminato il panico in Asia. Negli States, invece, a frenare le vendite è stato il fatto che i giovani, mercato preferito da Gucci, abbiano deciso di spendere meno, anzi “meglio”. Il lusso, negli Usa, vive una fase di stallo e i consumatori comprano meno scegliendo, di volta in volta, come limitare i loro acquisti. In Europa, invece, Gucci s’è trovata di fronte alla ritrovata concorrenza francese che, capitanata da Dior e Vuitton, sta capitalizzando attenzioni e affari, sempre – ça va sans dire – in uno scenario di crisi che non consente alla moda di spingere sull’acceleratore. C’è, poi, chi ha criticato la decisione di Gucci di tornare al quiet luxury. Abbandonare, cioé, la ricchezza quasi barocca delle sue collezioni, dei suoi prodotti a favore di profili più puliti, neutri. Insomma, la scelta di andarsela a giocare sullo stesso campo in cui, già da anni, dominano altri brand come, uno su tutti, Prada. Con l’obiettivo non confessato apertamente di “liberarsi” della clientela aspirazionale per puntare forte sugli aficionados dell’alta moda e alla fascia cosiddetta altospendente del mercato. Una situazione ingarbugliata, piena di spunti di riflessione potenziali, a cui i manager di Kering dovranno dare una risposta. Gucci, difatti, rappresenta uno dei brand più significativi e importanti per l’holding francese.

E i cattivi risultati degli ultimi anni non hanno intimidito più di tanto il grande capo François-Henri Pinault. Ceo e presidente di Kering, Pinault è convinto che “Gucci tornerà, non ho assolutamente dubbi su questo”. Durante una call con gli azionisti terrorizzati, a malapena placati dall’offerta della testa di De Sarno, Pinault ha spiegato: “Le cose sono andate peggio di quanto avessimo previsto. Il 2024 non è stato un anno facile per Kering, poiché stavamo, e stiamo ancora, portando avanti una trasformazione, e lo stiamo facendo in un contesto di mercato avverso – ha rimarcato ancora Pinault -. Tuttavia, nel corso dell’anno, le condizioni si sono rivelate ancora più difficili di quanto avevamo previsto. L’anno scorso vi avevo già detto che avremmo ricostruito senza scorciatoie. La salute a lungo termine dei nostri brand non è compatibile con compromessi a breve termine o soluzioni rapide”. E dopo aver passato in rassegna tutti i marchi di Kering, Pinault ha aggiunto: “Negli ultimi anni abbiamo usato il termine elevazione per descrivere il riequilibrio del modello di crescita delle nostre maison tra la dimensione fashion e quella senza tempo. E qui voglio essere molto chiaro su cosa intendiamo, in particolare per quanto riguarda la clientela. Abbiamo fatto crescere i nostri brand, in particolare Gucci, facendo leva sugli elementi fondamentali della loro desiderabilità, ovvero la loro componente fashion. Questo ha significato fare affidamento in larga parte sulla fascia aspirazionale del mercato”. In pratica, sui consumatori wannabe a cui Kering, adesso, volterà le spalle. “Pur continuando a proteggere questo segmento di clientela, che per noi è essenziale, vogliamo migliorare la nostra capacità di penetrare una clientela più elevata ed esclusiva. Abbiamo lavorato su quelli che chiamiamo brand book per ciascuna delle nostre maison. Questi documenti definiscono il quadro entro cui la creatività deve esprimersi, identificando i segni distintivi che compongono l’identità del brand, in modo da poterli rispettare, proteggere e arricchire meglio. Questo rappresenta la miglior dimostrazione di un approccio implementato in tutto il gruppo, ma che genera risultati unici e distintivi per ogni brand”.

Per fortuna c’è Lucio Corsi. Le immagini del cantautore toscano, rivelazione di Sanremo, modello per Gucci hanno consentito al brand di ottenere una nuova, e importante, visibilità. Che, in linea di principio, potrebbe fungere da base per un rilancio del marchio in un’ottica nuova. Non più il “gigante” ma l’outsider. Chissà come andrà.

 

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