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Decoupling: se aziende occidentali che lasciano la Cina
Chiamatelo come volete: decoupling, reshoring, oppure semplice riscrittura delle strategie industriali e commerciali. Ma sta qualcosa accadendo, eccome. Tra la Cina e l’Occidente si sta creando una faglia. Un allontanamento che non parla solo di dazi, né di auto elettriche o di formaggi. L’ultima notizia arriva dal mondo dell’hi-tech. Ibm ha deciso di tagliare il dipartimento di ricerca e sviluppo che si trova in Cina. Lo riporta il Wall Street Journal. Che citando alcuni dirigenti della nota multinazionale dell’informatica ha riferito che il gruppo intende riallocare altrove, ma sempre all’estero, le funzioni di Ricerca e sviluppo di cui fino a qualche settimana fa ci si occupava proprio in Asia. Le indiscrezioni si rincorrevano già da qualche giorno sui quotidiani cinesi. Ed è il vicepresidente di Ibm Global Enterprise Systems Development, Jack Hergenrother, a confermare ai dipendenti dell’azienda informatica non solo il disimpegno dell’azienda nel ramo R&S ma a spiegare che la mossa di Ibm comporterà più di mille esuberi dall’attuale pianta organica, che toccheranno le sedi di Pechino e Shangai. Le ragioni avanzate dalla dirigenza Ibm parlano di ricavi in caduta libera sul mercato cinese. I guadagni di Ibm, in Cina, sarebbero precipitati di quasi il 20%, per la precisione del 19,6%. Pertanto l’azienda non riterrebbe più sostenibile mantenere sedi e dipartimenti aperti nel Paese del Dragone. Dove, peraltro, è in corso da tempo una campagna d’opinione simil-nazionalista che si nutre proprio della contrapposizione economica e politica furiosa tra Pechino e Washington per chiedere ai cinesi di comprare, appunto, cinese. Anche, e forse soprattutto, sul mercato hitech. Quindi la vicenda presenta un lato politico che non si può certo ignorare. Sul fronte interno, la Cina non dovrebbe avere gravi problemi a fronteggiare mille esuberi in un comparto che, tra le altre cose, è strategico per le scelte economiche (e non solo) del governo. E su cui piovono investimenti. È su quello esterno che la polemica presto potrebbe divampare. Già, perché alcune notizie rivelano che Ibm starebbe pensando di spostare parte del lavoro che si faceva in Cina direttamente in India, a Bengaluru, dove sarebbero già stati arruolati nuovi tecnici informatici e diversi ingegneri. Più che reshoring, cioè il semplice disimpegno dagli investimenti all’estero, sembra trattarsi di friend-shoring ossia la delocalizzazione degli impianti di produzione in Paesi ritenuti “amici”. Sullo sfondo, però, c’è un’altra questione. Che, a sua volta, può rendersi con un altro termine dell’anglorum economico: il decoupling, ossia il disaccoppiamento dell’economia occidentale da quella cinese. Ibm, per restare nell’ambito hi-tech, non è l’unica azienda ad aver scelto di ripercorrere al contrario la via della Seta. Prima, infatti, hanno iniziato a disimpegnarsi altre importanti aziende come Intel e la svedese Ericsson, che ad aprile scorso ha silurato duecento dipendenti. E poi c’è Microsoft che, da parte sua, ha cominciato a limare e di molto le operazioni sul cloud e sull’intelligenza artificiale mentre inizia a chiedere, con una certa insistenza, ai dipendenti “cinesi” di prendere in considerazione l’idea di un trasferimento altrove.
Il governo cinese non l’ha presa affatto bene. E ha ribadito, parlando delle accuse piovute dai media Usa legate all’aumento di investimenti nella manifattura che potrebbe “aggravare la sovracapacità produttiva”, ha fatto sapere, per il tramite del portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Lin Jian, che “il protezionismo non farà altro che privare i Paesi dell’opportunità di una cooperazione vantaggiosa” e che “la reputazione globale della Cina nel settore manifatturiero si basa principalmente sui continui investimenti in ricerca e sviluppo e sui vantaggi comparativi del Paese, piuttosto che sul dumping attraverso i sussidi o sulla protezione per ottenere un monopolio”. Una bordata che seppur indirizzata a Washington s’è sentita fino a Bruxelles.
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